Il minore figlio di immigrati, nato in un paese ospite o qui giunto in tenera età, è un individuo sospeso tra due mondi che includono diverse culture, religioni, usi e costumi, lingue.
Tale “sospensione” genera spesso conflitti più o meno accentuati a seconda del grado e della qualità di integrazione acquisita, determinata dall’ambiente che accoglie.
Tale smembramento, sempre in bilico tra un’appartenenza e l’altra, è terreno fertile per insicurezze e frustrazioni che naturalmente, se non prese in considerazione, in un soggetto in fase evolutiva, possono rivelarsi fonti per psicopatologie in età adulta.
Sul piano giuridico questa condizione è stata ampiamente dibattuta negli ultimi giorni. Infatti, in quest’ambito, il minore può essere considerato come “erede” della cittadinanza del paese di provenienza dei genitori in base allo jus sanguinis, oppure, può essere associato alla cultura e alle leggi del paese dov’è nato, in base allo jus soli.
In paesi all’avanguardia, come accade in Francia, la decisione di appartenere all’una o all’altra cittadinanza, viene lasciata al ragazzo stesso, una volta maggiorenne.
Tale acquisizione potrebbe solo in parte mitigare il senso di non appartenenza. Di fatto le diversità ereditate, sia fisiche che culturali, potrebbero ancora rappresentare un grosso ostacolo psicologico per sentirsi veramente parte integrante ed importante del paese ospite e degli ambienti dove si trova inserito: scuola, palestre, quartieri.
Bambini involontariamente immigrati o figli di immigrati, ne sono in misura sempre di più in Europa, questo è chiaro. Ciò che lo è in misura minore, è per quanto tempo essi saranno considerati tali e per quante generazioni. Quando cioè si smette di essere considerati socialmente “immigrati”?
Per quanto tempo dovranno sentirsi portatori di un’identità non ben collocabile?
Tale situazione di bilico e di transizione, si stima che duri per almeno due generazioni.
Gli effetti psicologici e culturali del “viaggio” (inteso come spostamento, reale e metaforico, tra “luoghi” geograficamente e culturalmente differenti) continuano ad agire su questi soggetti, sia quando essi lo hanno sperimentato in prima persona, sia quando è stato inizialmente intrapreso dalle generazioni precedenti.
Stiamo parlando di immigrati involontari, bambini che hanno subito l’immigrazione, non che l’hanno decisa e che sono più esposti a fenomeni di bullismo e a inglobamento nella delinquenza organizzata, nel narcotraffico o nella prostituzione minorile, proprio perché più fragili ed in cerca di identità.
Ecco quindi che nasce la necessità di un intervento più assiduo di specialisti nel settore sociale e di un monitoraggio più serrato. Per monitorare il grado di benessere di tali minori, si è passati a considerare non soltanto criteri fisici quali una sana e completa alimentazione, una buona immunizzazione, ma anche criteri sociali come un adeguato grado di scolarità, la presenza o meno di discriminazione, soprattutto da parte dei coetanei e criteri psicologici quali i comportamenti devianti, la qualità dell’utilizzo del tempo, il sostegno familiare, paura e ansia del futuro oppure fiducia e speranza nell’avvenire, ambiente domestico e sociale, stabilità del luogo d’abitazione, presenza di violenze o di minacce di violenza nella vita dell’infante, attività ricreative, nonché sostegno dei bambini affetti da patologie croniche e/o disabili.
Scrive ad esempio Amartya Sen: “I funzionamenti rilevanti per il benessere variano da quelli più elementari, quali l’evitare gli stati di morbilità e di mortalità, essere adeguatamente nutriti, avere mobilità e così via, a numerosi altri funzionamenti più complessi, quali l’essere felici, raggiungere il rispetto di sé, prendere parte alla vita della comunità, apparire in pubblico senza provare un senso di vergogna”.
Una volta stabiliti quindi i criteri di benessere, lo sforzo del settore sociale, sta nell’individuarli nei singoli casi ed intervenire in modo prioritario nell’insegnamento della nuova lingua per evitare ritardi nell’apprendimento scolastico e isolamento sociale che altro non farebbe che aumentare il già enorme senso di abbandono, di discriminazione e di non appartenenza, proseguendo con sostegni psicologici personalizzati.
Lo Ius solis, non senza un adeguato percorso terapeutico e psicologico, potrebbe almeno in parte alleviare le suddette condizioni, se non altro da un punto di vista giuridico.

Dott.ssa Margherita Napoli
Dott.ssa Viviana Ciavatta
Dott.ssa Valentina Bandiera

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *